Askos con appliques, particolare ddi maschera femminile (Tardo IV – Inizi III sec. a.C.) Canosa di Puglia, Museo Archeologico Nazionale
Turismo e cultura

La Ceramica policroma e plastica (fine IV – prima metà del III sec. a.C.)

Francesco Specchio
Francesco Specchio
Quinto ed ultimo appuntamento dedicato alla rubrica su "L'evoluzione della ceramica canosina dal XII al III sec. a.c."
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Come abbiamo riscontrato nella precedente scheda, il IV sec. a.C. è stato un periodo durante il quale la Daunia assorbì le mode ellenistiche provenienti dalle colonie magnogreche, aprendosi al mondo artistico e culturale greco.

Dopo essersi radicata e affermata nella Puglia settentrionale, verso la fine del secolo la produzione della ceramica a figure rosse cominciò progressivamente a scomparire.
Nello stesso periodo, le botteghe di Canosa e delle altre citta daunie – come Arpi e Ordona – iniziarono a sviluppare, seppur con determinate varianti, un nuovo genere di ceramica funeraria. Si aprì, dunque, un’ulteriore stagione dai caratteri inediti e determinanti di un’elaborata manifattura che però, a differenza delle precedenti, avrebbe avuto una circolazione più propriamente locale.

In ogni modo, nell’ultimo ventennio del IV sec. a.C. gli artigiani canosini non si preoccuparono più soltanto di riprodurre le forme vascolari quotidiane, come avvenuto fino a questo momento. L’avvio di questa produzione rinnovata affondava comunque le sue radici nella ceramica a figure rosse, tanto da ritrovare in questa nuova stagione le oinochòai, le loutrophòroi, o le pissidi, in un aspetto rivisitato. Furono inoltre riprese le tradizionali forme autoctone daunie, come gli askoi e le olle, in un connubio tra esempi di ceramiche locali e importate, accomunati da una simile veste raffigurativa e ornamentale.

Dagli opifici, dunque, cominciarono ad uscire creazioni esuberanti nelle dimensioni e nello stile, pensate per stupire chi dovesse osservarle. Ormai, il vaso stava sempre più abbandonando il normale ruolo di recipiente domestico e rituale, per diventare un mero elemento decorativo atto a celebrare il defunto, ma anche a manifestare il prestigio politico ed economico della famiglia. Il manufatto era quindi concepito e diventato come un complemento d’arredo, allo scopo di trasmettere un tono insigne nell’ambiente funerario, riecheggiando nella tomba i fasti e lo sfarzo della dimora terrena.

La forma del contenitore era, perciò, diventata semplicemente la base per successivi interventi di abbellimento, persino scultorei (a rilievo, o a tutto tondo), fungendo da supporto per appliques, statuette, placche decorative, Vittorie alate, o maschere di Gorgone. Tali elaborazioni avevano assunto un carattere ‘barocco’, allontanandosi dalle più contenute manifestazioni artistiche antecedenti.

Gli elementi aggiuntivi potevano essere prodotti a mano, a stampo, oppure torniti e ispirati alla toreutica, o alla statuaria di piccole dimensioni. Essi venivano poi assemblati al corpo del vaso ricorrendo a determinati leganti come la barbottina, o il catrame che veniva ottenuto da cortecce d’albero.

Soltanto dopo aver assemblato i componenti e in seguito alla cottura, le superfici e gli arricchimenti ornamentali plastici venivano coperti di uno strato di scialbatura a base di calce spenta.

Dopo di che, si procedeva a dipingere il vaso facendo uso di vivaci colori come l’azzurro (Blu egiziano), il bianco (Polvere di marmo finemente macinata, o il Bianco di San Giovanni), il rosso (Ocra Rossa) e soprattutto il rosa (Alizarina naturale, o Madder Lake), ritenuto da molti una delle specificità di questi vasi canosini. Quest’ultima tinta veniva stesa come colore di fondo sopra l’ingubbiatura.

Le forme e le raffigurazioni si ispiravano alle pitture parietali. Quando non create a rilievo, troviamo dipinte quadrighe trainate da cavalli immaginati in corsa verso le isole dei Beati, oppure ippocampi e tritoni.

Tuttavia, la pittura del vaso, così estrosa e ricercata, essendo successiva alla sua cottura (a differenza della tradizionale rappresentazione a figure rosse), si è rivelata precaria e priva di quello smalto che veniva creato dal passaggio in fornace per proteggere le figure e gli effetti cromatici. Di conseguenza, forme dipinte e colori sarebbero andati incontro, col tempo, al deterioramento. Probabilmente, per ciò che attiene alcuni di questi vasi, ragionando in modo scientifico, tale evenienza sarebbe stata causata da problemi di conservazione dei materiali e dal loro contatto con gli agenti esterni.

Senza però condizionare il nostro pensiero, sarebbe comunque affascinante anche domandarci se questa particolarità possa essere stata una scelta voluta, magari per conferire alla bellezza quel senso di caducità che accompagna le nostre vite, ove tutto è di passaggio. In tal modo, potrebbe essere evidente la relazione che tali abbellimenti hanno con la morte, rendendo effimera la bellezza esteriore. Del resto, erano vasi fatti per essere lasciati nella tomba e li rimanervi in eterno, vicino al loro legittimo destinatario e proprietario: il defunto. Ma questa è soltanto una semplice ipotesi interpretativa, da considerarsi in modo accessorio e a beneficio d’inventario.

Secondo Arthur Dale Trendall, tale produzione non sarebbe andata oltre il primo quarto del III sec. a.C., forse cessando intorno al 272 a.C., al momento della conquista romana della Puglia. Oppure, come invece ha sostenuto lo studioso britannico Frederick Norman Pyrce (1888-1953), questa fabbricazione ha potuto prolungarsi fino al periodo delle guerre puniche e della presenza cartaginese nella nostra regione, che portò alla celebre battaglia di Canne (217-216 a.C.).

In effetti, non dobbiamo trascurare la situazione politica locale che si è susseguita tra IV e III sec. a.C. Durante questi decenni, Canosa apparteneva ormai alla Repubblica, essendo stata annessa a Roma nel 318 a.C., sotto il consolato di Lucio Plauzio Venno e di Marco Foslio Flaccinatore. Subito dopo, fu conferito alla città il titolo di “Civitas Foederata”, cioè un centro autonomo – pur sotto il dominio romano – che godeva di determinati privilegi amministrativi e istituzionali.

Siamo quindi in un’epoca a partire dalla quale la Daunia e il resto della Puglia preromana avrebbero perso definitivamente la propria autonomia, venendo assoggettate da questo momento in poi al potere di dominatori esterni. Col trascorrere degli anni, tali avvicendamenti politici avrebbero portato a ripercussioni anche sugli usi e i costumi locali.

Il Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia, nelle sale che ospitano la collezione rinvenuta all’interno dell’Ipogeo Varrese (IV-III sec. a.C.), ci fornisce il migliore dei saggi di questa serie di realizzazioni, tanto da strabiliare i visitatori che vi giungono, quanto da essere richiesti in prestito per mostre in Italia e all’estero.
Grandi e piccole oinochòai, teste femminili, portagioie, loutrophòroi, askoi “a Scilla”, askoi con appliques, statuette di Oranti, Vittorie alate e altri elementi non sono soltanto il solenne epilogo di un percorso espositivo-museale, ma soprattutto rappresentano, nel senso più profondo, l’apice creativo e produttivo della plurisecolare manodopera ceramica canosina, che in tal modo poté portare il suo genio al punto massimo.

Che tali creazioni siano stupefacenti alla nostra vista, un contributo illustre in loro favore viene fornito dal poeta e scrittore Giuseppe Ungaretti (1888-1970) che nel 1934 giunse in Puglia e lasciò traccia della sua ammirazione per queste ceramiche, a quei tempi esposte al Museo Archeologico Provinciale di Bari:

“Ma il vasaio canosino un giorno impazzisce. Ha mandato in giro tanti mai vasi sui quali il disegno è più o meno vivo, più o meno accademico, ora è sul punto di doversi riposare e diventa naturalmente come un bambino, e sarebbe meglio dire: diventa come uno che abbia ritrovato se stesso: la tecnica delle figure rosse su fondo nero è abbandonata, e a nausea gli è anche venuto quell’untume che hanno i soliti vasi. I nuovi vasi di una cottura incompleta, è abbandonata, come era giusto in Puglia, la cera per la calce: immersi in un bagno di calce, il bianco è lasciato alle figure coprendo il resto d’un rosa acre, e al rosa verranno presto a tenere compagnia altri colori anch’essi dati a fresco: il rosso cupo e il nero per i capelli, l’azzurro, il vermiglio. S’è ottenuto così un effetto assetato e abbagliante, com’è questa natura.

Questa non è la sola novità: nel vaso è penetrato come un lievito, e il vaso si è gonfiato, s’è fatto trabocchevole di ornati in rilievo; le teste dei cavalli d’una quadriga hanno sfondato la pancia d’un orciuolo, dai fianchi d’un secondo vaso fanno capolino vispi ippocampi, dalla bocca d’un terzo escono brontolando un tritone e una tritonessa, un quarto ha addirittura la forma d’una testa femminile e due testine giovanette le sbocciano lateralmente da quattro petali che formano calice.
Insomma il Barocco più straordinario e più genuino si manifesta in questi vasi rinvenuti in un ipogeo di 22 secoli fa.”

(Giuseppe Ungaretti, Da Foggia a Venosa, in “La Gazzetta del Popolo”, 22 agosto 1934)

BIBLIOGRAFIA E WEBGRAFIA

G. ANDREASSI, L’Ipogeo Varrese, in R. CASSANO (a cura di), “Principi, Imperatori, Vescovi”, Venezia, 1992

M. CORRENTE (a cura di), 1912. Un ipogeo al confine. La Tomba Varrese, Canosa di Puglia 2001, ristampa nel 2004

M. N. LABARBUTA, La ceramica policroma e plastica, in “Tu in Daunios”, Gennaio-Febbraio 2014, Anno 4, n. 16, p. 19

F. MORRA, Quando Giuseppe Ungaretti si fermò a Canosa…, articolo reperibile al seguente url: https://www.canosaweb.it/rubriche/francesco-morra-storia-e-dintorni/quando-giuseppe-ungaretti-si-fermo-a-canosa/

REDAZIONE FAME DI SUD, Il fasto barocco dei vasi di Canosa, bizzarra eccezione nella produzione vascolare antica del Sud Italia, articolo reperibile al seguente url: https://www.famedisud.it/il-fasto-barocco-dei-vasi-di-canosa-bizzarra-eccezione-nella-produzione-vascolare-antica-del-sud-italia/

domenica 22 Gennaio 2023

(modifica il 23 Gennaio 2023, 11:35)

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