Cultura

​Perché la “battaglia” contro le Fondazioni favorisce la privatizzazione del patrimonio culturale

Luigi Di Gioia
Palazzo Iliceto
A Firenze e a Roma, nei prossimi giorni, due importanti iniziative tese a favorire il progetto di rivitalizzazione del patrimonio culturale periferico attraverso una gestione "dal basso" e "non-profit".
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Il tema delle Fondazioni in ambito culturale è sempre stato molto controverso e fortemente dibattuto. Negli ultimi giorni è tornato d’attualità. Il collettivo “Mi riconosci? Sono un professionista dei Beni Culturali”, che dalla fine del 2015 cerca «di cambiare la realtà lavorativa del settore»[1] conducendo una più che condivisibile battaglia, ne ha intrapreso un’altra sul «sospetto che gli organi dello Stato italiano siano al lavoro per trasformare tutti i più grandi Musei pubblici (i Musei ad autonomia speciale, dal 2016) in Fondazioni private», paventando che «l’obiettivo», dello Stato e dei “poteri forti”, s’intende, «appare chiaro: i Musei più grandi come macchine da soldi (per gruppi privati, sia chiaro), e tutti gli altri al macero […] i vantaggi sono evidenti…. per chi dirige la fondazione, e non potrebbe essere altrimenti. Papparsi le entrate di Uffizi, Colosseo, Pompei e via dicendo fa decisamente gola»[2].

Premesso che definire i musei come «macchine da soldi» è a dir poco bizzarro e surreale, in quanto non esiste museo in Italia (e al mondo) in grado di autosostenersi semplicemente basandosi sui propri ricavi e restando fedele alla propria mission etica di “istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica” (D.M. 23 dicembre 2014, Organizzazione e funzionamento dei musei statali, art.1), il ragionamento di “Mi riconosci?” vien costruito su un’idea falsata di “fondazione”. E vediamo ora il perché.

L’istituto giuridico della fondazione non è quello di una associazione a delinquere e non può diventare tale da un giorno all’altro. Secondo “Mi riconosci?” «una fondazione privata con lo Stato come primo fondatore permette di piazzare ai suoi vertici parenti e amici, senza alcun concorso; permette di avere bacini utili per clientelismi» e poi ancora «la dirigenza della Fondazione può essere composta da chi serve, di norma persone vicine alla politica o ai poteri economici locali, e può usufruire di lauti stipendi» e per finire, mentre le perdite si socializzano, «i profitti saranno tutti della dirigenza, se per caso andrà male, si potrà battere cassa e ottenere dallo Stato il capitale necessario a continuare così».

Iniziamo dalla fine: le fondazioni sono istituzioni non-profit, senza scopo di lucro, e si “fondano” su uno scopo socialmente rilevante, sullo svolgimento di una attività essenzialmente devolutiva e sull’indisponibilità del patrimonio (cioè destinato unicamente al raggiungimento dello scopo per il quale l’ente è costituito): pertanto non fanno profitti e non dividono utili. Arriviamo ora ai «parenti e amici»: la dirigenza è sì nominata dall’ente pubblico (che la costituisce e/o partecipa alla stessa in caso di “fondazioni di partecipazione”), non per dividere utili o laute prebende, ma per controllarne la gestione, avendone affidato la cura del proprio patrimonio (pubblico) e le relative risorse economiche e finanziare (pubbliche) utili (insieme alle risorse private convogliate) allo scopo statutario socialmente rilevante.

È prassi consolidata, inoltre, negli statuti delle fondazioni, l’assenza di compensi per gli organi direttivi (presidente e consiglieri), fatta salva la previsione di eventuali gettoni di presenza, a cui spesso gli stessi componenti rinunciano[3].

Secondo “Mi riconosci?” è preoccupante anche l’Art Bonus, ovvero il sistema utile (e perfezionabile) per raccogliere elargizioni, contributi e sponsorizzazioni dal modo dell’impresa (e quindi dai privati, per non far pesare tutto il funzionamento della macchina dei beni culturali sulle risorse pubbliche e sui cittadini), in quanto «sponsorizzare è un meccanismo collaudato per evadere: è ben noto il sistema in ambito sportivo. In ambito culturale può accadere lo stesso, in presenza di accordi sottobanco».

È già, perché le fondazioni, vedi sopra, sarebbero assimilabili ad associazioni a delinquere (o destinate facilmente ad esserlo), dedite alla spartizione di profitti leciti e illeciti, alle plusvalenze sui beni del patrimonio e al doping finanziario (per restare in ambito sportivo), benché siano istituti soggetti – per legge – alla presenza di organi di controllo, alle norme sulla trasparenza, al deposito e alla pubblicità dei bilanci e a quant’altro previsto dalle normative vigenti (ad esempio, quelle molto restrittive del nuovo “Codice del Terzo settore”).

Pertanto, ha dell’incredibile la seguente affermazione di “Mi riconosci?” riguardo al mecenatismo: «A un privato potrebbe far gola gonfiare la sua donazione per ricevere sconti sulle tasse (credito d’imposta) maggiori del dovuto. E che una transazione simile avvenga tra due diversi privati (un imprenditore che ha un vantaggio nell’ottenere un maggiore sconto sulle tasse e una fondazione che ha necessità di far quadrare i bilanci) è molto più rischioso rispetto a una transazione tra un privato e un istituto pubblico».

Non riesco proprio a immaginare un consiglio di amministrazione che faccia carte false (leggasi reato) per raggiungere il pareggio di bilancio (obbligatorio per una fondazione non-profit), rendicontando una somma mai ricevuta, attraverso una o più transazioni non tracciabili, coprendo la perdita reale d’esercizio con l’aria fritta e con la stessa aria fritta saldare i propri creditori, che all’uopo avrebbero magari gonfiato tutte le fatture per favorire il mecenate di turno.

Occorre inoltre precisare che non è più prevista per i musei dello Stato, nel “Codice dei Beni culturali e del paesaggio”, la forma della gestione diretta attraverso le “fondazioni culturali”. L’unica esperienza in materia di “fondazioni culturali” previste dall’articolo 10 del d.lgs. 368/98 e disciplinate dal Regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri del 26 novembre 1999 (poi rifluito, nella sostanza, nella prima versione dell’art. 115 del Codice), non esente da limiti e criticità, rispetto alla mera gestione diretta da parte del Ministero per i beni e le attività culturali si è realizzata nella fondazione per il Museo egizio di Torino (istituito il 6 ottobre 2004). Essa vede la partecipazione, in qualità di fondatori, del Ministero, della regione Piemonte, della provincia e del comune di Torino e di fondazioni bancarie.

A pregiudicarne però il quadro di riferimento di tale istituto (fondazione culturale), nonché il suo sviluppo e la sua diffusione, è stata la correzione legislativa del 2006 agli artt. 112 e 115 del “Codice dei Beni culturali e del paesaggio”, che ha escluso, per il settore museale dello Stato, il ricorso all’affidamento diretto attraverso forme di partenariato pubblico-privato analoghe a quelle della Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, ove il partner privato era stato individuato senza previo esperimento di una gara pubblica[4].

Ad oggi tutte le società concessionarie dello Stato sono imprese private, nella stragrande maggioranza for-profit. Queste sì che non muoverebbero (non muovono e ne mai hanno mosso, negli ultimi venti anni) un dito a favore del patrimonio cosiddetto minore e diffuso. La recente riforma, per ora solo in via teorica e con tanti errori da correggere sul piano tecnico-operativo, ha cercato di invertire la rotta con l’istituzione dei Musei autonomi, dei Poli museali e del Sistema museale nazionale con l’intenzione di diffondere e uniformare standard qualitativi e livelli gestionali efficaci ed efficienti a tutti i musei, grandi o piccoli, pubblici o privati, statali o comunali, sparsi sulla Penisola: è solo l’inizio di un’impresa complessa e faraonica.

Viceversa, l’istituto più diffuso, tra le varie formule a cui gli enti locali ricorrono per far fronte alla salvaguardia e alla gestione del proprio patrimonio culturale, è quello, secondo la definizione di “Mi riconosci?”, della «ambigua e poco normata» “Fondazione di partecipazione”. Questo istituto, in realtà, presenta alcune particolarità, dovute al fatto di coniugare l’aspetto personale (nonché democratico e partecipativo), proprio delle associazioni, con quello patrimoniale, tipico delle fondazioni classiche.

Si tratta di un soggetto giuridico, senza scopo di lucro, al quale possono partecipare più soggetti: Stato, Regioni, Provincie e Città metropolitane, Comuni, enti pubblici e anche privati (proprietari di beni culturali oggetto di valorizzazione e persone giuridiche senza scopo di lucro), fino ai semplici cittadini (persone fisiche). Trova piena cittadinanza tra le forme di enti del Terzo settore prescritte dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 11764. Secondo diversi esperti, questo istituto può essere considerato un modello di gestione dei beni culturali potenzialmente in grado di garantire un equilibrio tra la natura pubblica del patrimonio culturale e una sua efficiente gestione, valorizzazione e fruizione.

La fondazione di partecipazione, formula non-profit diffusasi nella gestione del patrimonio culturale degli enti locali sulla base dell’applicazione del “Tuel” (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), in conformità con le prescrizioni del “Codice dei Beni culturali e del paesaggio” (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) e del “Codice civile”, può costituire un tentativo di costruire un modello italiano di gestione dei beni culturali che da una parte eviti processi di privatizzazione o di alienazione, e dall’altra consenta, grazie al coinvolgimento di larghi strati della comunità locale e delle istituzioni, un’ampia partecipazione all’enorme progetto di rivitalizzazione del nostro patrimonio periferico attraverso una gestione dal basso” e “non-profit[5].

A Firenze, sabato 23 febbraio, nell’ambito di “TourismA 2019” (il Salone dell’Archeologia e del Turismo culturale[6] promosso ogni anno da “Archeologia Viva”), si affronteranno, in una discussione aperta e partecipata, proprio questi temi durante il primo appuntamento de “Il Bene Nostro. Stati Generali della gestione del Patrimonio Culturale dal basso[7], nel quale interverranno, tra gli altri, la Fondazione Archeologica Canosina e il collettivo “Mi riconosci?”[8]. A seguire, venerdì 1° marzo il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, incontrerà a Roma gli esponenti del Terzo settore che collaborano con il Ministero, in un convegno dal titolo “Il MiBAC ascolta”; il ministro, a tal proposito, ha dichiarato che «dobbiamo imparare dal Terzo settore e capire come le iniziative del MiBAC possano aiutare, sistematizzare, promuovere»[9].


[1] https://miriconosci.wordpress.com/chi-siamo/

[2] Qui l’articolo completo: https://miriconosci.wordpress.com/2019/02/07/vogliono-trasformare-i-musei-statali-in-fondazioni-private-molto-piu-che-un-sospetto/.

[3] A titolo di esempio: http://www.comune.torino.it/giunta/enti/enti-citta/fondazione-torino-musei.shtml.

[4] Ires Piemonte (a cura di), Progetto di gestione della Fondazione Museo delle Antichità Egizie, Torino 2005.

[5] M. D’Isanto, S. Consiglio, A. Riitano, Una risposta per l’alleanza tra pubblico e società civile: la fondazione di partecipazione, in ‹‹Il Giornale delle Fondazioni››, rivista on line: http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/una-risposta-l%E2%80%99alleanza-tra-pubblico-e-societ%C3%A0-civile-la-fondazione-di-partecipazione.

[6] http://www.tourisma.it/programma-completo/

[7] https://www.archeologiaviva.it/11170/stati-general…

[8] http://www.tourisma.it/il-bene-nostro/

[9] http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sit…

giovedì 21 Febbraio 2019

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